Cantone_Raffaele

La lettera inviata dal presidente dell’Anac al direttore de “La Repubblica” e pubblicata sabato 1 luglio.

di Raffaele Cantone*

Caro direttore,
la trasparenza, osservava Norberto Bobbio già negli anni Ottanta con la lungimiranza che lo contraddistingueva, è uno dei principi che differenzia le democrazie dai regimi autoritari, perché in questi ultimi la segretezza e l’impossibilità di conoscere cosa fa l’amministrazione sono la regola. Pur scontando un forte ritardo, anche culturale, negli ultimi anni l’Italia ha compiuto enormi passi avanti: dal 2012 la legge Severino impone di pubblicare sui siti internet istituzionali una apposita sezione denominata “amministrazione trasparente” e l’anno scorso il decreto Madia ha introdotto l’accesso civico generalizzato (il cosiddetto Foia), una norma di civiltà che consente a chiunque di richiedere dati e documenti alla pubblica amministrazione anche senza dover dimostrare un interesse diretto.
In linea coi compiti che la legge le affida, l’Anac sta profondendo in massimo dell’impegno affinché sia data piena attuazione alla trasparenza, nella convinzione – riconosciuta da tempo a livello internazionale – che essa sia uno dei principali argini alla corruzione, poiché, rendendo conoscibile l’operato della pubblica amministrazione, essa consente un controllo civico e diffuso da parte di cittadini e associazioni.
Sotto questo aspetto, con la loro capacità di raggiungere anche coloro che non necessariamente sono in grado di muoversi con agilità fra gli strumenti informatici e il Foia, i media (“cane da guardia della democrazia” secondo la celebre definizione) possono svolgere un ruolo fondamentale. Il pieno e libero accesso alle informazioni serve del resto anche ad essi per avere notizie di prima mano senza intermediazione.
È naturale dunque che tale funzione divenga cruciale quando in ballo c’è uno snodo fondamentale in qualunque democrazia: la pubblicità e la trasparenza dei fatti giudiziari.
Con la riforma del processo penale il legislatore, fra i vari temi, ha concesso anche al governo la delega ad intervenire sulla delicata materia delle intercettazioni e di conseguenza su come e quando esse potranno divenire pubbliche e pubblicabili. Occorrerà trovare il non semplice ma giusto equilibrio tra diritto di cronaca, diritto alla riservatezza dei cittadini e segreto d’indagine.
In attesa di tale intervento mi pare ci sia un aspetto cruciale che si continua a trascurare, ovvero come i media possono ottenere le informazioni necessarie a fare cronaca giudiziaria. Mi spiego: il codice di procedura penale prevede il divieto di pubblicare gli atti coperti dal segreto istruttorio finché l’imputato non ne viene a conoscenza, cioè fino alla chiusura delle indagini preliminari, oppure in occasione di atti a sorpresa quali perquisizioni e sequestri. Se però si presentasse in cancelleria il giorno in cui sono stati emessi provvedimenti di arresto, un giornalista non avrebbe accesso nemmeno all’ordinanza di custodia cautelare perché, sebbene pubblica, le modalità con cui procurarsi tali documenti non sono regolate.
Un cronista, a seconda delle circostanze, dove così confidare nella “benevolenza” degli inquirenti, di un avvocato, degli investigatori o del funzionario di turno. Può sembrare secondario ma non è affatto una questione neutra. Al contrario, finisce per essere una distorsione evidente, perché questa situazione non consente un rapporto paritario tra le fonte e il giornalista.
Proprio per effetto di tale subalternità, infatti, quest’ultimo rischia di essere indotto a nutrire riconoscenza verso chi gli passa le “carte”, col rischio di minare l’imparzialità di cui dovrebbe essere portatore. Ci sono tantissimi stimati professionisti che danno quotidianamente prova di non correre simili rischi, tuttavia ciò non toglie che questa assenza di regole rappresenti un oggettivo vulnus.
Come si può pensare che la stampa eserciti il suo ruolo, costituzionalmente riconosciuto, se poi non la si mette in condizione di svolgere al meglio tale impegnativo compito? Ed ancora: può quest’ambito restare non regolato in un sistema che ha già introdotto il Foia? Perché dunque non sanare questa lacuna riconoscendo ai giornalisti un accesso, sia pure rispettoso dei diritti delle parti coinvolte nel processo, agli atti depositati? I vantaggi sarebbero molteplici: avremmo la garanzia di un’informazione meno sbilanciata e sarebbero ridotti i rischi di rapporti poco chiari con le fonti o di manipolazione che possono derivare da un accesso “privilegiato” ai documenti d’indagine.
Ritengo che un argomento così rilevante, determinante per la nostra democrazia, richieda che si apra davvero un dibattito pubblico e si superi quella che è oggi una tollerata ipocrisia.

*Raffaele Cantone è presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac)

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