Paolo Borrometi

«Stai attento». La prima minaccia era stata incisa a caratteri cubitali sulla fiancata della station wagon: «Si fossero fermati alle scritte ci avrei messo la firma», sorride amaro Paolo Borrometi, giornalista 32enne ragusano, cui la mafia l’ha giurata. Prima dei suoi articoli Scicli era, quasi per tutti, la terra senza mafia del commissario Montalbano. Ora, dopo i suoi pezzi, scritti in solitudine sul sito «laspia.it» è il comune sciolto per infiltrazioni con il sindaco rinviato a giudizio per concorso esterno.

Dopo le scritte venne altro. Una spalla frantumata. La porta di casa data alle fiamme. Minacce, sempre più pesanti. Fino all’ultima, gravissima, di pochi giorni fa, a Roma, che gli è valsa la solidarietà del presidente del Senato, Piero Grasso. Ma non ancora un’auto blindata e una scorta 24 ore su 24.
«La prima cosa che pensi è: “Oddio che ho fatto?” – racconta con semplicità Borrometi che ora è anche collaboratore dell’Agi ed editorialista de “Il Tempo” -. Poi una rabbia assurda per quei gesti vili. Ma la cosa che più ti fa gelare il sangue è chi ti dice: “Chi te lo fa fare?”». Lo stesso refrain delle minacce che riceve per telefono e su Facebook.
A vederlo, lo sguardo monello dietro gli occhiali trasparenti, nessuna posa da vate antimanfia, non lo diresti che è riuscito a far saltare i nervi alle cosche del ragusano e alle ‘ndrine di Gioia Tauro.

Come è iniziata? «Non mi occupavo di mafia. Inizio a seguire il caso di Ivano Inglese che stavano per archiviare. Lancio un appello in tv a parlare. Qualcosa si muove». Lavora su Scicli. Arriva il primo avvertimento. Non lo segue. Il 16 aprile 2014 l’agguato.

«Ero in campagna, da Bonnie. Il mio cane, che era molto irrequieta. Penso sia per la mancata passeggiata. Mi sento afferrare da dietro il braccio destro. Saltano i tendini. Le ossa. Cado a terra. Due uomini incappucciati mi prendono a calci gridando: “U capisti che t’hai a fare i fatti tuoi?”. Dura forse 30 secondi. I più lunghi e più difficili della mia vita. Con le cure il braccio è tornato a funzionare, anche se meno. Ma quella violazione della mia intimità, nel luogo dei miei sogni, non si è più rimarginata».
Ci pensa su tre giorni. Infernali. Poi decide. Non si atteggia né a vittima, né a eroe. Anzi, sorride nel ricordare: «Mi sentivo come un gattino, bagnato, nell’angolo. Ma scelgo di continuare a dare il mio contributo alla verità. Molti mi sono vicino. Ma poche istituzioni». Cominciano le voci che attribuiscono il suo agguato a una «storia di corna».

Lui insiste. Pubblica la prima puntata dell’inchiesta sul boss di Scicli che chiedeva il pizzo di un euro a manifesto per fare pubblicità ai candidati e del sindaco che, vinte le elezioni, gli aveva assegnato l’appalto dei rifiuti. Su un muro scrivono: «Borrometi sei morto». Non molla. Tornano. «Ero tornato a vivere dai miei. Un bastardo, di notte, da fuoco alla porta di casa. Si può immaginare cosa provi la mamma di un figlio unico. Mio padre, mai loquace, mi disse: “Mai giù. Sempre su”».
Poi tutto va veloce. Scrive del capo ‘ndrina di Gioia Tauro che distribuiva la droga nel ragusano per conto della mafia. La figlia del boss «sparato in faccia» interrompe il lutto per intimargli di smettere. Arrivano l’avviso di garanzia al sindaco, l’arresto del boss e il commissariamento della città di Montalbano.

Lo trasferiscono a Roma per proteggerlo. Scrive di mafia anche da qui. Del mercato ortofrutticolo di Vittoria e del boss becchino Gianbattista Ventura che aveva intestato l’agenzia funebre a Padre Pio. Lui, via mail, gli scrive: «Ti scippo la testa. Anche dentro il commissariato». Infine il segnale più grave, sul quale gli inquirenti ora indagano. Smetterà? Lui sorride: «No. La paura c’è. Sono un ex balbuziente. Dall’altra sera sono tornato un po’ a balbettare. Ma sogno un mattino di svegliarmi e dire: visto che valeva la pena».

Fonte: www.corriere.it

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