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Fare luce sulla morte dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati venti anni fa in Somalia. In pochi giorni oltre 40 mila persone hanno sottoscritto la petizione di Articolo21 sul sito Change.org. E’ un dato straordinario, che testimonia la volontà di questo Paese di non mollare, di continuare a credere che la giustizia è possibile. L’appello chiede  che siano desecretati i documenti sui traffici di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia, su cui indagarono Ilaria e Miran. Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati, ha assunto un personale lodevole impegno: ma certi uffici dei servizi segreti pretenderebbero di tenere ancora ben chiusi i cassetti.

Sin dal primo giorno, dal momento in cui giunse al Tg3 la tragica notizia dell’assassinio dei nostri colleghi a Mogadiscio, sapemmo che sarebbe stato difficile conoscere la verità. La Somalia, allora come oggi, era devastata dalla guerra civile, talmente diffusa e radicata che neppure le forze dell’Unosom (tra cui  contingenti americani e italiani) erano riuscite a sedarla. Anzi: proprio quel 20 marzo gli italiani abbandonavano Mogadiscio, lasciando dietro di sé la disperazione di un popolo. Era questo dramma che Ilaria e Miran avevano voluto raccontare e documentare. Spiegando perché e come fosse maturata la tragedia nel Corno d’Africa.

Ilaria seppe, parlando con le donne di Mogadiscio, che le bande criminali erano rifornite di armi provenienti dall’Italia; e che  per quelle armi i ”signori della guerra” consentivano ai trafficanti di spargere veleni in mare e nelle terre dei pastori. Tra la popolazione si erano diffuse malattie strane, mai viste,che nessuno sapeva curare. Volle approfondire: volò ad intervistare a Bosaso, al nord, l’unica autorità disposta a parlare. Il sultano Mussa Borgor le confermò tutto, e le parlò delle navi Shifco, pescherecci donati ai somali dal governo italiano, che secondo notizie raccolte dai suoi uomini portavano dall’Italia sia i veleni che le armi destinate ai ribelli. Fu l’ultima intervista:

Ilaria e Miran furono assassinati non appena tornati a Mogadiscio. Un agguato che né i nostri militari né gli uomini dei servizi segreti, pure al corrente della situazione di grave pericolo per i giornalisti italiani, seppero impedire. Poi il silenzio e l’omertà. Durante vent’anni l’appassionata e tenace volontà dei genitori di Ilaria, Luciana e Giorgio, quest’ultimo scomparso tre anni fa, ha tuttavia consentito di accertare molte cose. Che, intanto, i nostri servizi segreti – allora Sismi e Sisde – erano a conoscenza di ogni movimento dei nostri due colleghi, anche nel viaggio a Bosaso. Che ai servizi erano giunti parecchi rapporti sui traffici di rifiuti tossici, anche radioattivi, in cui erano coinvolti organizzazioni criminali ma anche personaggi vicini al potere politico. Che l’invio di armi anche dall’est europeo (in violazione dell’embargo Onu) avveniva attraverso i porti italiani: e che a vigilare su di essi era un uomo del Sismi e dell’organizzazione Gladio, il maresciallo Li Causi, a sua volta assassinato a Mogadiscio qualche mese prima di Ilaria e Miran.

La Digos di Udine seppe infine da proprie fonti che l’ordine di assassinare Ilaria e Miran era venuto dall’Italia: una apposita riunione tenuta nell’ufficio di uno dei capi fazione organizzò il commando che condusse a termine l’esecuzione. All’arrivo delle due salme in Italia, poi, si scoprì che erano scomparsi i taccuini con gli appunti di Ilaria, e diverse cassette con le immagini girate da Miran.

Nei documenti che ora quarantamila italiani chiedono di desecretare c’è certamente qualche altro brandello di verità, ed occorrerà accertarlo. La procura della Repubblica di Roma, che sette anni fa  chiese l’archiviazione dell’inchiesta, ora sembra intenzionata a riaprirla. L’intera vicenda è costellata di morti, e morti violente: Starline l’amica di Ilaria a Mogadiscio, Ali Abdi l’autista somalo di Ilaria, il capitano della polizia Sharmarke unico a stendere un rapporto(scomparso) sui possibili assassini. Vittorio Lenzi, il giornalista della tv svizzera che documentò la scena del delitto. Il capitano Natale De Grazia, che indagò sulla “Jolly Rosso” e le navi dei veleni.

E’ vivo e vegeto però il somalo Jelle, ovvero colui che ha recentemente ammesso di aver dichiarato il falso circa gli assassini di Ilaria e Miran e di essere stato per questo pagato. Grazie alla sua precedente accusa un ragazzo, Omar Ashi, ha intanto scontato quindici anni di carcere. Ritrovare Jelle, e magari avviare la revisione del processo, avvicinerebbe la verità. Capiremmo meglio perché all’epoca si volle chiudere in tutta fretta l’indagine sul delitto; e perché una discussa Commissione parlamentare non abbia esitato ad  infangare l’impegno professionale ed umano di Ilaria e Miran, sostenendo che in Somalia erano andati soltanto per una vacanza.

di Roberto Scardova – Articolo21

17 marzo 2014

http://www.articolo21.org/2014/03/caso-alpi-hrovatin-oltre40mila-persone-chiedono-verita/

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