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Con il progetto documentaristico “Sea of Images”, Misja Pekel e Maud Van De Reijt hanno iniziato ad approfondire il processo decisionale dei media dietro la pubblicazione di video e foto di rifugiati e vittime di guerra. L’impatto mediatico e la viralità possono giustificare tutto?

Dopo la pubblicazione della foto di Aylan Kurdi, il cui corpo fu ritrovato sulle sponde di Bodrum in Turchia, a livello mediatico ci si è posti la questione su quanto fosse lecito o meno pubblicare contenuti così ‘scioccanti’.

Come scrivono Pekel e Van De Reijit su Ethical Journalism Network: “In 12 ore l’immagine di Aylan, scattata il 2 settembre 2015, ha raggiunto 20 miliardi di persone attraverso i social media. Ma i migranti muoiono in mare ogni giorno, cos’aveva di particolare quella foto?”.

Analizzando le scelte editoriali a livello europeo, Ejn riporta che: “Serge Ricco, direttore artistico della rivista francese L’Obs scelse di non pubblicarla e si scusò per la decisione opposta presa invece dalla stessa testata online. Ricco, intervistato dal giornale tedesco NRC Handelsblad, dichiarò che: ‘ho pensato alla dignità del bambino. Questa foto non cambierà il corso della storia in alcun modo’ – secondo Pekel e Van De Reijit – Altre testate usarono la stessa argomentazione per giustificarne la pubblicazione”.

“Qualche giorno dopo il ritrovamento di Aylan, Facebook censurò la pubblicazione dell’artista siriano Khaled Barakeh delle foto di sette bambini annegati sulle coste libiche. Perché rispetto ad Aylan è stata data una risposta mediatica così diversa? Secondo il direttore dell’Ethical Journalism Network Aidan White la ragione è che: ‘Abbiamo bisogno dell’estetica nelle foto come del buon linguaggio nell’uso delle parole’ riporta Ejn”.

Per la scelta editoriale di Le Monde il ruolo cardine l’hanno invece svolto i social network: “Secondo il capo redattore Nicolas Jiminez – scrive Ejn – la circolazione massiva della foto sui social network l’ha resa ancor di più una notizia, al punto che ho scelto di pubblicarla il giorno dopo l’accaduto.”

La foto di Aylan è diventata un simbolo: “Si può aver bisogno di un’immagine per la quale combattere, il rischio è che poi perda il suo significato originale. Basti pensare a Che Guevera, chissà quanti di quelli che indossano magliette con il suo volto sanno veramente chi sia stato, eppure la portano” dice Peter Bouckaert, direttore emergenze a Human Rights Watch e una delle prime persone a condividere la foto di Aylan sui social media.

La pubblicazione di una foto: la differenza tra denuncia e spettacolarizzazione

Un altro caso mediatico è stata la foto del bambino coperto di calcinacci e polvere, nel retro di un’ambulanza dopo i bombardamenti ad Aleppo. Secondo Ejn: “Quello che è stato importante è che la foto è stata pubblicata dall’Aleppo Media centre, un gruppo di attivisti che documentano le atrocità del governo siriano. E anch’essa è diventata virale anche se si parlò di foto falsa e la Russia la additò come strumento di propaganda”.

Caso totalmente diverso si è verificato il 27 agosto 2015 quando 71 persone sono state trovate morte in un camion. La maggior testata tedesca, il Die Neue Kronen Zeitung, ha pubblicate le foto dei corpi senza alcuna censura. “L’organizzazione austriaca indipendente Presserat – secondo Pekel e Van De Reijit – disse che la scelta confliggeva con l’etica poiché non era rispettata la dignità delle persone morte”.

Determinante ai fini delle scelte giornalistiche è il contesto, per Ejn: “Il lavoro del giornalista non si ferma alla foto ma dovrebbe guardarvi dietro, contestualizzando appunto. I giornalisti dovrebbero chiedersi perché pubblicare determinate fotografie, il fatto che un’immagine diventi virale non ci esime, dal fare scelte etiche.

Fonte: www.cartadiroma.org 

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