larepubblica_quotidiano

di Vittorio Roidi*

Michele Serra chiede, Maurizio Molinari risponde. Per ora sembra finita qui, ma speriamo che la discussione prosegua. Sarebbe bello che prendesse piede l’abitudine, fra i giornalisti, di confrontarsi davanti ai lettori, sul come fare il proprio mestiere. Pubblicare sull’edizione on line di Repubblica, un giorno sì e un altro pure, le foto di Marco e Gabriele Bianchi, gli assassini di Willy Montero. Quante volte? E perché? Possibile che il pubblico debba vedere in continuazione i muscoli e le facce dei fratelli assassini, come fossero star anziché ergastolani? Basta, dice Serra al direttore, si può evitare? “Quasi ogni giorno, da molti mesi, vedo i loro tatuaggi, la loro aggressività palestrata, la loro postura da bulli, campeggiare sul video del mio computer…”. Se proprio se ne deve parlare, che almeno si pubblichi la foto di Willy Monteiro, il ragazzo che hanno ammazzato a Colleferro nel settembre di due anni fa, anziché la loro ”in posa da combattimento”.
Sul paginone della Cultura del quotidiano, il 18 ottobre, l’editorialista e il direttore scrivono uno accanto all’altro. Oggi la logica che vince nei giornali è quella dei molti clic che “ci garantiscono la pagnotta”, lo sa bene Serra. Però invita a fare una scelta: “Discutiamo tutti insieme, noi che lavoriamo nei media, se esiste ancora questo concetto: scegliere. Io sono sicuro di sì, perché se così non fosse, avrebbero vinto i fratelli Bianchi”.
Il direttore di Repubblica spiega che la questione “pone una domanda cruciale: se dobbiamo conoscere il Male, se dobbiamo guardarlo nel volto, se gli dobbiamo permettere di entrare nella nostra mente, nelle nostre vene. Se dobbiamo esporci o meno al rischio di venirne contagiati, perché ognuno di noi è vulnerabile al contagio dell’odio per il prossimo”. Risponde che “è giusto, opportuno, necessario conoscere il Male e guardarlo negli occhi. Innanzitutto perché il Male è presente fra noi e conoscerlo aiuta a proteggersi dalla sua moltiplicazione e… perché celarlo, nasconderlo farebbe il suo gioco, ovvero gli consentirebbe di diffondersi contando sempre sulla capacità di sorprendere le vittime”. Infine, afferma Molinari, perché di fronte al Bene e al Male è la scelta che lo definisce”.
Il direttore del quotidiano porta poi un esempio diverso, quello di una donna migrante che perde il figlio nelle acque del Mediterraneo e si trova davanti all’immagine del suo corpicino su una spiaggia sperduta: “Quella donna vuole o no che la sua tragedia sia conosciuta? Io credo che lo voglia. E quella donna vorrebbe o no che fosse noto a tutti il volto del trafficante di esseri umani che l’ha trasportata? Credo ancora di sì, lo vorrebbe”. Il direttore sembra non accorgersi che i due casi sono solo in parte simili anche se entrambi i drammi comportano un ragionamento etico, un rispetto per la persona e insieme il desiderio di denunciare una tragedia. Del resto, in questi anni spesso i giornali hanno evitato di pubblicare la foto di quel bambino morto su una spiaggia lontana, per rispettarlo, per non sfruttare la sua morte sulla base di una logica tutta mercantile.
Una foto a cosa deve servire? Spesso è essenziale, offre essa stessa la notizia. In altri casi la arricchisce e la completa. E’ superflua quando il fatto ormai né noto. Ed è in questo frangente che si può scegliere. L’immagine vista già cento volte dei fratelli Bianchi non serve a raggiungere alcuno scopo, non dice nulla. Mira a guardare in faccia il Male e a combatterlo? O invece esalta addirittura quei due turpi individui e fa il loro gioco?
Un mestiere difficile, delicato, il nostro. Fa bene un grande giornale a riflettere ad ogni passo. Soprattutto di fronte agli sciagurati comportamenti che compaiono sui social, altri mezzi di comunicazione, dove non sembrano esistere valori, regole, limiti. La professione giornalistica è altra cosa e deve restarlo, risponde a esigenze più profonde, ai problemi e agli obbiettivi vitali di una società: il Male, il Bene, la Verità da trovare e mostrare. Per questo un professionista deve poter scegliere se pubblicare quella foto. I bilanci dei giornali sono in rosso, e le aziende contano i clic, si affidano ai placet. Sono guidate dagli algoritmi, cioè i robot. Nei siti on line si mettono in scala le informazioni in base alle statistiche stilate dagli ingegneri. Al contrario il giornalista deve essere libero, come impone la legge, deve mettere o no la foto soltanto sulla base dei principi sui quali è fondata la professione. Scegliere, un dovere sul quale Serra e Molinari concordano, anche se le loro decisioni alla fine divergono.

*Presidente del Consiglio territoriale di disciplina del Lazio

8.693 visite