Turchia: fare i giornalisti costa l’ergastolo

La corte di Appello di Ankara ha confermato la condanna all’ergastolo aggravato per sei giornalisti e intellettuali, tra cui i fratelli Ahmet e Mehmet Altan e il noto volto televisivo Nazli Ilicak. I tre furono incarcerati a settembre 2016, a due mesi dal golpe fallito il 15 luglio, accusati di aver utilizzato il ruolo e la popolarità data loro dalle apparizioni in tv e dal mestiere di giornalisti per favorirlo. La Federazione nazionale della Stampa italiana e l’Ordine dei giornalisti hanno chiesto agli organismi internazionali dei giornalisti di promuovere una grande iniziativa contro le sentenze emesse dai tribunali di Erdogan che hanno inflitto i sei ergastoli ‘aggravati’.

«La Turchia – affermano Fnsi e Cnog – si conferma il più grande carcere per giornalisti nel mondo e ha ormai steso un enorme bavaglio sul diritto dei cittadini ad essere informati. Spetta ora alle istituzioni europee e alla NATO, della quale la Turchia fa parte, assumere tutte le iniziative necessarie a fermare una deriva autoritaria e la cancellazione integrale dei più elementari diritti umani, civili, politici». Oggi più che mai, concludono i rappresentanti dei giornalisti italiani, «spetta ad ogni giornalista dare voce alle proteste già in atto in Turchia e impedire che la censura di regime possa definitivamente ‘oscurare’ qualsiasi forma di opposizione e dissenso».

La condanna all’ergastolo per i sei giornalisti era arrivata lo scorso febbraio, ma alla fine di maggio una corte di Istanbul ha ordinato la liberazione di Mehmet Altan, economista, accademico, e anch’esso volto noto della tv turca. La corte ha accolto un ricorso sulla condanna all’ergastolo presentato dagli avvocati di Mehmet, che rimane libero almeno fino a quando sul loro processo non si sarà pronunciata la corte suprema. Oltre ai fratelli Altan e Nazli Ilicak la condanna all’ergastolo aggravato è stata confermata anche per Fevzi Yazici, Yakup Simsek e Sukru Ozsengul, anch’essi arrestati il 22 settembre 2016 e accusati di far parte della rete di Fethullah Gulen, imam e miliardario residente negli Usa, ritenuto la mente del golpe fallito il 15 luglio 2016.