Riflessioni sulla presunzione di innocenza

Il dibattito sulla presunzione di innocenza è di grande attualità, e anche l’Ordine dei giornalisti è chiamato a fare la sua parte. Sul tema riceviamo, e volentieri pubblichiamo, un interessante contributo di Vittorio Roidi, Presidente del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti del Lazio.

di Vittorio Roidi

Un decreto che rischia di imbavagliare e ostacolare il lavoro dei cronisti. La Ministra della Giustizia Cartabia ha stabilito divieti e sanzioni per il personale che diffonde notizie sui procedimenti giudiziari. Lo ha emanato per rispondere alle sollecitazioni delle istituzioni europee affinché ai cittadini venga garantita la presunzione di innocenza, ma ha scatenato il putiferio. L’Ordine e la Federazione della stampa hanno protestato: è come tornare ai tempi antichi, significa chiudere i rubinetti e impedire ai cittadini di conoscere cosa avviene durante le indagini. Per difendere il diritto di cronaca in ogni regione è cominciato un serrato confronto fra i rappresentanti dei giornalisti e le Procure della Repubblica. Per calmare le acque è sceso in campo il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, che ha emanato un’ordinanza in cui ha spiegato che i comunicati e le conferenze stampa sono strumenti che possono essere utilizzati con intelligenza, visto che anche all’interno delle Procure è profonda la consapevolezza che i cittadini debbano conoscere lo sviluppo delle attività investigative e della prima fase del processo.

Non sappiamo se il decreto verrà modificato, perché la battaglia è appena cominciata e attraverseremo comunque una fase in cui il lavoro dei cronisti risulterà più difficile. In attesa che Sostituti procuratori, poliziotti e carabinieri dimostrino con i fatti di voler informare correttamente la collettività, da parte dei giornalisti potrebbe però cominciare una riflessione approfondita – fino in fondo non è mai stata fatta – sul nostro ruolo. Perché la medaglia ha due facce: i magistrati e gli ufficiali giudiziari danno o tacciono le notizie; noi le scriviamo, le titoliamo e le mettiamo in pagina. Quanta parte di responsabilità vogliamo assumerci? Quanti “mostri” abbiamo contribuito a creare, quanti innocenti sono diventati colpevoli anche per nostre responsabilità? L’etica ha fatto passi notevoli nella professione, ma molte modalità usate nel nostro lavoro sono sempre le stesse. Possiamo fare diversamente? Prendiamo Pietro Valpreda, il ballerino anarchico accusato, nel 1969, della strage alla banca di piazza Fontana: se succedesse oggi, avrebbe lo stesso la vita rovinata? Le accuse distorte e politicamente influenzate della Questura di Milano sarebbero accolte come allora dalle nostre cronache?

Proviamo a domandarcelo. Da una situazione simile siamo già passati. Nel 1992, nel pieno della tempesta di Tangentopoli, decisi a scongiurare l’approvazione di una legge che avrebbe ucciso la libertà di stampa, scrivemmo un piccolo codice deontologico che ci imponeva di usare un linguaggio più appropriato, di valutare diversamente l’avviso di garanzia, di considerare che le accuse che venivano dalle Procure dovevano essere verificate. Forse dovremmo rivisitare e aggiornare quel codice, fare un altro passo in avanti. Mentre le organizzazioni professionali si battono affinché le Procure ci consentano di esercitare il diritto di cronaca, ricordiamoci che la legge ci impone di essere equidistanti fra investigatori e difensori.

Mentre la Ministra medita su come modificare il proprio decreto, mentre magistrati e inquirenti studiano come scrivere i comunicati e quanto aperta ai cronisti debba restare la porta dei loro uffici, a noi spetta riflettere sui nostri compiti. Il personale giudiziario ha il dovere di cercare i responsabili dei reati e di rendere noti gli sviluppi delle investigazioni. Noi abbiamo quello di raccontarli ai cittadini, ma non siamo giudici, non possiamo far passare per colpevoli persone che non sono state condannate. Lo dice la Costituzione: un indagato è ancora un innocente e come tale deve risultare dagli articoli e dai titoli dei nostri giornali. Spesso purtroppo ciò non accade.