Addio ad Alberto Stabile, garbo e rigore della professione

alberto stabile foto ansa

di Carlo Picozza

La morte, verso la quale questi tempi – soprattutto in Medio Oriente – ci stanno abituando con cinismo non voluto, ha colto anche – a settantotto anni – Alberto Stabile, amico apprezzato e amato, in particolare a Repubblica, dove ha lavorato e che di Medio Oriente si è occupato per anni.

Nel giornale di Eugenio Scalfari, Alberto era approdato sin dall’avvio, dopo un’esperienza professionale a L’Ora, dove, fresco di studi in Giurisprudenza, si era cimentato nella cronaca giudiziaria di quegli anni in Sicilia.

A Roma era presto finito agli Esteri, un oblò attraverso cui scrutare – da Gerusalemme a Beirut, dal Cairo a Damasco – quanto andava consumandosi nel quadrante più martoriato e infelice.

In modo induttivo, a partire dal microcosmo individuale registrato in presa diretta, ecco, carta e penna alla mano, Il suo ultimo lavoro, Il giardino e la cenere, con un sottotitolo esplicito: Israele e Palestina nel racconto di un albergo leggendario. Edito da Sellerio, è anche un affresco sul conflitto annoso tra due Stati, tra due popoli, dipinto attraverso quanti, protagonisti attivi o osservatori partecipanti, lo hanno a lungo tenuto sotto controllo. A distanza, però. Quella giusta per schierarsi, evitando gli equilibrismi. Sempre in maniera aperta. Senza angustie mentali. Da dove? Punto di osservazione privilegiato è stato, per Stabile, l’American Colony Hotel, l’albergo, appunto, che ha fatto da teatro a incontri segreti, accenni di negoziati di pace. Luogo di accoglienza per un’umanità varia, da Lawrence d’Arabia a Winston Churchill, da Bob Dylan a John le Carré ed Henry Kissinger, l’hotel ha funzionato anche da copertura per spie, contractor e faccendieri d’armi. E Stabile, che vi ha soggiornato, lo ha scelto come sfondo pure per raccontare una guerra che sembra non avere fine. Lo ha fatto, forte di uno stile rigoroso e della sua scelta di campo.

”Con Alberto”, ricorda il collega e amico, Enrico Franceschini, “ci scambiammo di sede nel 1997, lui andava a Mosca al mio posto, io a Gerusalemme al suo: lo ricordo così nella sua casa fuori dalle mura della Città Vecchia, prodigo di consigli, di persone da incontrare, di cose da imparare. Aveva intervistato e conosciuto tutti I protagonisti del conflitto israeliano-palestinese, da Ytzhak Rabin a Yasser Arafat”. “Era di quel conflitto – conclude Franceschini – una bibbia vivente”.

Alberto Stabile, con il suo garbo austero, era tutt’altro che superbo. Un giornalista buono. Un uomo rigoroso che chiedeva a se stesso più di quanto si aspettasse dal piccolo grande universo sociale che lo circondava e che ora lo piange. Come lui, il suo stile sobrio non si frapponeva al sentimento, agli stessi moti di indignazione che i fatti gli suscitavano. Fino all’ultimo. Con intelligenza e gentilezza d’animo.

Ciao, Alberto, che la terra ti sia lieve.