Addio ad Andrea Camilleri, papà di Montalbano

Sono pochissimi gli scrittori veri che, oltre a diventare popolari per i loro libri, riescono ad essere amati anche come personaggi. Andrea Camilleri, morto oggi a 93 anni, era uno di questi e ha usato questa sua forza mediatica per raccontare di sé e del suo amato commissario Montalbano, ma soprattutto per intervenire sul sociale, per cercar di far arrivare ai suoi lettori, che sono tantissimi, alcune idee base di democrazia e eguaglianza e dignità che sapeva bene oggi purtroppo non sono più da dare per scontate. La sua importanza come artista e intellettuale è stata proprio in questo costante impegno nella scrittura legata alle idee (si vedano un libro quale ‘Come la penso’ del 2013 o le sue prese di posizione sul governo Berlusconi e oggi verso Salvini), proposte con la sua aria bonaria ma anche con un preciso vigore, con quel guizzo negli occhi che rende vero e vitale quel che si sta dicendo, senza perdere forza nemmeno ora che gli occhi gli si erano spenti. E i modi per dirlo, oltre a quelli diretti delle interviste su temi caldi del momento, sono anche quelli dei romanzi, in particolare quelli costruiti su influenza di Sciascia partendo da un avvenimento storico del passato più o meno recente, ma tutti alla fine incentrati sul nodo dei rapporti tra potere e malavita organizzata. Traccia di questo resta anche nelle avventure contemporanee di Montalbano nella sua Vigata, nate nel 1994 con ‘La forma dell’acqua’, ritratto di vita e malavita di provincia (quella di Montelusa) in cui comunque emerge la figura del protagonista, con la sua malinconica ironia, e la caratterizzazione dei personaggi di contorno (il che ha fatto anche la eccezionale fortuna della serie tv con Luca Zingaretti), simpatico e abile commissario con una moralità tutta sua da cui non prescinde mai e con un modo personale di svolgere le indagini, spesso apparentemente attratto più dagli elementi di contorno e da rivelatori indizi divagatori che dalla sostanza del crimine. Figure e ambienti divertenti e ironici che rivelano echi, personalmente reinventati, della letteratura gialla che va da Simenon (di cui amava ancor più i romanzi senza Maigret) a Vazquez Montalban passando per Scerbanenco, ma soprattutto sono proposti in un’abile costruzione di ritmo narrativo incardinato su un dialogo magistrale e sostenute da quella personalissima lingua da lui creata, misto di italiano ed echi di siciliano, la cui espressività tanto conquista i suoi lettori ma spesso ha fatto storcere il naso a certa critica. “Non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi italiane – spiegava – quanto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adoperi il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane”. Per questo l’ultima lettura risolutiva, prima di consegnare un testo, era sempre ad alta voce. La teatralità, l’abilità nei dialoghi, la costruzione delle trame sono rivelatori degli altri e non minori aspetti di questo artista, nato a Porto Empedocle (Agrigento) nel 1925, ma vissuto a Roma sin dal dopoguerra e dal 1949 regista (il primo a rappresentare Beckett in Italia) e autore teatrale e di saggi sullo spettacolo e scritti su Pirandello, oltre che per anni titolare di una cattedra di regia all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Un legame con la scena mai spezzato se anche negli ultimi anni, ormai persa praticamente del tutto la vista, costretto a dettare e farsi rileggere i propri libri, gli ultimi Montalbano, si è esibito al teatro greco di Siracusa in un suo monologo ispirato alla figura del veggente cieco Tiresia e si preparava a recitarne uno nuovo a Caracalla su Caino. Nelle vesti di funzionario Rai delegato alla produzione e sceneggiatore lega poi il suo nome a famose produzioni poliziesche della tv italiana, che avevano come protagonisti il tenente Sheridan e il commissario Maigret. E se pubblica e scrive poesie sin dai suoi vent’anni, arriva davvero alla scrittura narrativa solo verso i 60 anni, con ‘Il corso delle cose’, pubblicato nel 1978 gratis da un editore “a pagamento” con l’impegno di citarlo nei titoli dello sceneggiato tv tratto dal libro, ‘La mano sugli occhi’, che comunque non ne aiutò la fortuna. Nel 1980 esce quindi da Garzanti ‘Un filo di fumo’, il primo in cui compare la cittadina immaginaria di Vigàta ma è solo nel 1992, con l’uscita da Sellerio, che sempre resterà il suo editore principale, de ‘La stagione della caccia’, che grazie al passaparola dei lettori diventerà un sorprendente successo, confermato poi dal boom de ‘Il birraio di Preston’. Camilleri ama la scrittura, ha una storia teatrale legata all’amore per l’alta avanguardia novecentesca e ha radici nella sua Sicilia e nel passato classico, così i suoi romanzi sorprendono spesso per scelte innovative, come accade nel 2008 con l’uscita de ‘Il tailleur grigio’ e, lo stesso anno, de ‘Il casellante’, seconda parte di una trilogia di romanzi legati al mito, di cui fanno parte ‘Maruzza Musumeci’ e ‘Il sonaglio’. Scrive costantemente, quotidianamente e nel 2016, a 91 anni, nella nota finale del suo centesimo libro, ‘L’altro capo del filo’, dichiara che si tratta di “un Montalbano scritto nella sopravvenuta cecità” che ha dovuto dettare alla sua assistente Valentina Alferj, “l’unica che sia ormai in grado di scrivere in vigatese”. E lo stesso vale per tutto ciò che ha firmato da allora, sino all’ultimo Montalbano appena uscito, ‘Il cuoco dell’Alcyon’, giocato su recite e finzioni. I suoi rimpianti, divenuto cieco, diceva che riguardavano principalmente il non vedere più l’amatissima pittura e il non riuscire più ad ammirare la bellezza femminile. Negli anni, con i libri tradotti in trenta lingue e decine di milioni di copie vendute nel mondo, ha ricevuto una decina di lauree honoris causa e tanti premi.

Fonte: ANSA