Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio, Guido D’Ubaldo, con tutto il Consiglio esprime commozione per la scomparsa del collega Luca Cifoni, che oggi ci ha lasciati prematuramente. Un giornalista serio, scrupoloso, leale e preparato. Abbiamo chiesto a Diodato Pirone, suo compagno di strada per tanti anni al Messaggero, un ricordo che volentieri pubblichiamo.
di Diodato Pirone
Era un giorno di dicembre. Ci eravamo dati appuntamento sul Frecciarossa per Trento perché, uno ad insaputa dell’altro, eravamo stati invitati al Festival della Famiglia in due eventi separati fissati, per lo stesso giorno, sull’argomento che ci ha sempre rapito entrambi: la demografia. Strano, vero? Ma ormai non ci facevamo più caso. Eravamo come fratelli, due percorsi distinti eppure con tante frequenze in comune. Con Luca avevamo appena pubblicato un libro sulla demografia, “La trappola delle culle” per Rubbettino. Un testo in stile giornalistico ma curato, pieno di cifre, tutte, ripeto tutte, verificate una per una prima da lui, poi da me, poi assieme e infine da lui che non si fidava né di me né di sé stesso. L’accuratezza di Luca non era solo una leggenda. Come la sua (nostra) ambizione di offrire al nostro Paese un piccolo ma utile strumento per affrontare un tema strategico come il crollo delle nascite in una fase nella quale domina il vivere alla giornata.
Sono stato amico di Luca perché era il contrario del giornalista che oggi va per la maggiore: serio e calmo a dispetto della cialtroneria e delle urla, competente contro la superficialità, intellettualmente onesto perché odiava la malafede, vaccinato contro gli intrighi di redazione e l’adulazione verso i direttori e infine vicino e attento alla moglie, Alessandra, e ai figli Beatrice e Tommaso. Comportamenti che avevano cementato la nostra amicizia vecchia di trent’anni e scandita in mille mila ore dedicate al Messaggero.
“Come va Luca?” “Mah, ho un dolore alla schiena”, mi disse sul treno davanti al bancone del bar della carrozza numero tre. “E chi non ha dolori alla schiena?”, gli risposi non senza aver osservato, persino con qualche invidia, la sua magrezza.
Parlammo tanto in quel viaggio perché io dopo il libro avevo lasciato il giornale e riscoprii in poche ore le doti che facevano di Luca un giornalista senza doppioni: rigore, voglia di approfondire, onestà, impegno (tutte le mattine in redazione), capacità di capire e spiegare le cifre come nessun altro (“Pochi sanno che fra zero e uno i numeri sono infiniti”, diceva). Un aggettivo per definirlo? Era illuminante. Credetemi, non è retorica del dolore.
Fra Roma e Trento facemmo un giro di ricordi, come quando, seduto affianco alla mia scrivania, ricevette in viva voce la telefonata di un notissimo economista. “Sono sorpreso – gli disse – non credevo che un giornalista potesse occuparsi di argomenti specifici con tale profondità”. Una sera estiva presentammo il libro in una località di mare. E fu il mitico ex Ragioniere Generale dello Stato, Andrea Monorchio, a dirgli che articoli precisi come i suoi erano ormai rari. Ma poi posso testimoniare che erano i lettori più semplici a telefonargli spesso per chiedergli una dritta sulla propria pensione o sull’Isee o sulla domanda per l’Assegno Unico Universale per i figli.
Un giornalista, Luca, estraneo agli standard italiani. Tanto più che era romano di Roma, a dimostrazione che questa città non produce solo classi dirigenti sfibrate e cittadini con un debole senso etico. Da dove gli veniva la forza di resistere ad un mondo dominato dalla disonestà intellettuale, dalle fake news e da un giornalismo fatto di titoloni finti? Era laureato in filosofia e si era formato al Massimo. In particolare, aveva assorbito le lezioni di padre Franco Rozzi, il gesuita che insegnava ai suoi allievi a condensare tutto in tre righe. E Luca condensava tutto nella “U” maiuscola di Uomo. Addio, Amico.