di Marco Cianca Scrivere un coccodrillo. Non si sa chi abbia usato per primo questa stramba espressione. “Ma il coccodrillo è un animale, lo puoi …
di Marco Cianca
Scrivere un coccodrillo. Non si sa chi abbia usato per primo questa stramba espressione. “Ma il coccodrillo è un animale, lo puoi disegnare, non scrivere”, direbbe un bambino con sana ingenuità. Vagli a spiegare che stiamo parlando di un’arte suprema, quella dell’ipocrisia giornalistica. E sì, perché come le lacrime dello squamoso arcosauro sono sinonimo di un falso pentimento, un necrologio equivale sempre alla torsione di una biografia in senso buonista, dissimulando i vizi, anche se tanti, ed esaltando le virtù, pur se poche, dello scomparso. Difficile che qualcuno titoli: “E’ morta una carogna”, persino nel caso di Totò Riina.
Ma la perfezione di questa lavatrice delle coscienze si raggiunge quando ad andarsene è uno scrittore, un artista, un poeta, un uomo pubblico negletto e sbeffeggiato in vita e che di improvviso, oltrepassata la porta dell’Aldilà, diventa fulgido e indimenticabile.
Le lacrime di coccodrillo inondano i cassetti dei giornali. Sono lì, surgelate, pronte all’uso. Basta aggiungere l’ora, il giorno e la causa del decesso. Nei grandi quotidiani, come il New York Times, esistono delle redazioni apposite, incaricate di stilare elenchi di “pre-morti”, tale è la definizione, in base alla fama, all’età e alle condizioni di salute e di compilare, rinfrescandoli quando necessario, i relativi articoli. Da noi, in Italia, non ci sono veri e propri “obituary” e spetta alle singole sezioni segnalare, e se del caso vergare, il futuro ricordo di personalità degne di nota e ritenute a rischio.
Poi ci sono i decessi improvvisi. Un incidente, un suicidio, un infarto. E allora serve un archivio nutrito da mettere a disposizione di una penna veloce e, si spera, competente. Per lo più, i pezzi che escono in questi frangenti non sono da antologia.
La velocità dell’informazione, purtroppo, prevale sempre sulla qualità. Dare per primi una notizia assolve anche dalle sgrammaticature e dai possibili scivoloni. E questo vale anche di fronte all’insondabile mistero dell’umana esistenza. Come se il giornalista volesse trasformarsi nel boia che mostra alla folla la testa del decapitato. Eccolo, è morto. Era il 1897 quando Mark Twain smentì la propria dipartita avvertendo che si trattava di reports “greatly exaggerated”.
Ma se è sempre stato così, fin dagli albori della moderna informazione, perché scandalizzarsi per il recente caso riguardante Rosa Russo Jervolino? Lei stessa lo definisce “un clamoroso malinteso” e la figlia, da buona napoletana, ha evocato lo scaramantico gesto delle corna.
L’ex ministra dell’Interno, prima donna a guidare il Viminale, e l’autore di “Tom Sawyer”, come tanti altri episodi analoghi ricordati con aria di scandalo in questi giorni, sono entrambi vittime della stessa malsana fretta. Una psicotica pulsione ad accelerare l’ultimo respiro del malcapitato in modo da gridare di fronte al mondo che la nera signora con la falce ha mietuto ancora. Un “memento mori” e nel contempo un esorcismo pubblico in nome di quella presunzione di immortalità che, come sosteneva Freud, è dentro ognuno di noi e ci preserva dalla pazzia.
Se le motivazioni di fondo restano le stesse, da Mark Twain alla Jervolino, dal 1897 ad oggi, la differenza sta nella tecnica. Ai tempi dello scrittore, le notizie viaggiavano con il telegrafo e con i primi rudimentali telefoni. Oggi abbiamo i cellulari e Internet. Le necessarie verifiche dovrebbero essere più facili ma in realtà a dominare è l’incontrollata marea del web che sommerge ogni buona intenzione. L’imperativo sono i click, che poi vogliono dire pubblicità, e allora non si può perdere nemmeno un attimo, altro che controlli.
I siti dei quotidiani, anche di quelli più importanti, sono contaminati da questo demone che fa da alibi alle fake news. Ma quando una bufala riguarda l’ineffabilità della vita e della morte, ecco che la stonatura mette i brividi. Pure il Corriere della Sera, il quotidiano più diffuso e autorevole, è caduto nella trappola. Nei giorni dell’agonia di Eugenio Scalfari è apparso sull’account Instagram l’annuncio del decesso. Pochi istanti, subito rimosso. Resta il dubbio che la tentazione di dare un buco ai diretti concorrenti proprio riguardo al loro fondatore, sia stata una cattiva consigliera.
E a proposito di Repubblica, qualche utente ha segnalato che i primissimi ricordi di Piero Angela messi on line avevano ancora lo spazio bianco nel quale gli autori avrebbero dovuto inserire gli ultimi dettagli. Dimenticanza, obituary incompleto.
Insomma, non si salva nessuno. E nessuno paga pegno. Le eventuali scuse formano rare perle e a pochi sembra interessare la sostanza del problema. Preparazione, umiltà, orgoglio, professionalità, etica, autonomia. Un direttore del Messaggero, parecchi anni fa, diceva che puoi pubblicare l’editoriale più incisivo ma se poi sbagli l’orario dei cinema, il lettore ti punirà. Una sollecitazione a essere inattaccabili. Necrologi poco attendibili e gara a chi suona la campana contribuiscono al calo di credibilità. E di copie.
Le lacrime del coccodrillo scendono copiose.
Siamo tutti “pre-morti” e avremmo diritto a rispetto e buona informazione.