Ci lascia un altro grande giornalista iscritto al nostro Ordine: lunedì sera è scomparso Gianni Minà. Il giornalista, scrittore e conduttore televisivo aveva 84 anni. Era nato a Torino nel 1938 e aveva iniziato la sua carriera giornalistica a Tuttosport, di cui poi fu anche direttore negli anni Novanta. Passò poi alla Rai, per cui seguì le Olimpiadi di Roma del 1960. Ha profondamente innovato nel linguaggio la televisione, con interviste, reportage e documentari rimasti nella memoria collettiva. Minà ha seguito da inviato otto mondiali di calcio, sette olimpiadi, decine di mondiali di pugilato. “Gianni è stato un fuoriclasse, un giornalista a 360 gradi – ha detto Guido D’Ubaldo, presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio – capace di lasciare il segno per il suo stile inconfondibile e per le sue memorabili interviste mai banali. Un amante della cultura, un esempio per i giovani».
La Camera ardente per Minà sarà aperta mercoledì in Campidoglio dalle 10 alle 19.
Pubblichiamo un bellissimo ricordo di Gianni Minà a firma di Fabrizio Bocca, capo dello sport di Repubblica ai tempi in cui il giornalista scomparso scriveva per la testata fondata da Eugenio Scalfari.
VOLEVAMO UNA VITA COME GIANNI MINA’
di Fabrizio Bocca
Vasco Rossi voleva una vita come Steve McQueen e noi – gli anni erano più o meno quelli – volevamo una vita come Gianni Minà. Invidiavamo tutto di lui, l’agenda telefonica per prima cosa, ovviamente. Praticamente l’arca dell’alleanza del giornalismo, conteneva i numeri di telefono di chiunque: da Napoleone Bonaparte a Edoardo Vianello. Il suo grande amico Troisi ne farà una gag tv leggendaria: “Lui sull’agendina c’ha Fidel. Senza Castro… Prefisso 00 e via, chiama Fidel. Quando Pino Daniele gli ha detto: Gianni, chiama Troisi, lui ha preso l’agendina e via: fratelli Taviani, Little Tony, Toquinho e Troisi”. E poi gli anni 60, eravamo Cassius Clay, Ray Charles e io… Lo straordinario mondo di Gianni Minà.
Aveva sempre una camicia comoda e chiara, Gianni, pantaloni comodi e neri, un ampio giubbotto scuro e per le scarpe raccomandava: “Comode, me raccomando, con la suola alta, di gomma, che c’è da scarpinà. Meglio da ginnastica”. Non so perché, ma Gianni era torinese e tifoso del Toro, ma con lo slang e la battuta del romano. Credo fosse l’imprinting della Rai, in cui per altro era una specie di lupo solitario ormai. Ne sarà progressivamente emarginato, per le sue idee politiche, la sua indipendenza e intraprendenza, con poca riconoscenza per lo straordinario lavoro fatto in decenni di prima linea e microfono in mano. Ingiustamente dimenticato, e con grande sofferenza da parte sua.
E poi la grande borsa nera a tracolla: taccuino, appunti, chiavi, libri, fogli, occhiali da sole, giornali, ovviamente l’agenda, praticamente la bibbia. E poi, tra i suoi elementi distintivi, i baffi, che lo facevano un po’ Pancho Villa, un rivoluzionario come il suo idolo: Fidel Castro. I baffi erano la cornice del suo sorriso.
Posso raccontarlo per cazzate, non per un’amicizia che non ho mai avuto, perché non mi è stato possibile approfondire la conoscenza – differentemente da alcuni miei cari colleghi che hanno avuto la possibilità e la fortuna di fare lunghi pezzi di strada insieme a lui – e poi perché lui era troppo girovago, e troppo più grande rispetto a noi che ci accontentavamo di frequentarlo sporadicamente, quando capitava, quando faceva un salto a Repubblica. Succedeva abbastanza spesso
si intratteneva a lungo a chiacchierare o fermarsi con noi a mensa, a raccontare i suoi infiniti aneddoti.
Portava pezzi e interviste sublimi che tutti conoscono. Maradona, Falcao, Zico, Platini, Mennea, Teofilo Stevenson, Sotomayor, Ed Moses, Smith e Carlos erano solo una parte del suo immenso Pantheon. Posso rivelare che quelle interviste non le scriveva, ma aveva il vezzo di dettarle dal telefono direttamente ai “dimafonisti”, l’ufficio appunto che si incaricava di raccogliere i pezzi degli inviati, batterli a macchina e consegnarli alla redazione per pubblicarli. Gli era così facile il racconto orale che gli veniva benissimo e posso testimoniare che più di una volta Mario Sconcerti e Giuseppe Smorto i miei amici e capi di allora nonché grandi suoi amici e confidenti, pur di agevolarlo ed evitargli l’incombenza della macchina da scrivere, gli consentivano di dettare il pezzo addirittura dall’interno di Repubblica stessa. Assurdo, ma possibile. I dimafonisti facevano finta di non sapere da dove provenisse la telefonata. Salvo poi veder girellare Gianni per la redazione…
Scriveva pezzi chilometrici, gli riservavano una pagina intera, e lui ne scriveva due. Una volta gli mettemmo davanti il blocco dei fogli di quello che aveva dettato: “Gianni, devi tagliare, per favore, sei fuori di almeno 70 righe, come facciamo?”. E lui tagliava, mezzo aggettivo qui, un apostrofo là. “A Già, dai qua, non guardare e lasciaci fare: avrai pure intervistato Maradona, ma se non la facciamo uscire, non la legge nessuno…”.
Una volta, non ricordo se fosse Falcao o chi altro – si parla della metà degli anni 80 – ci diedero da passare il suo pezzo. Quando arrivò era lunghissimo e per parte mia riuscii a eliminarne a fatica, senza rovinarlo, solo una piccolissima parte. La questione finì sul tavolo di Mario e Peppe: “Ragazzi è impossibile, è pieno di cose bellissime, di aneddoti, storie, come facciamo a tagliarlo?” Sconcerti ebbe l’intuizione: facciamo così, prese il blocco dei fogli, lo divise a metà, e in fondo al primo blocco scrisse: (prima parte- SEGUE). E al secondo: (seconda parte-FINE). Questo lo mettiamo domani. Alé, allora era possibile.
Faceva telefonate chilometriche, Gianni, in mezzo mondo. Il telefono di Sconcerti non aveva il blocco chiamate internazionali. Una sera fa: “Oh fammi fare una telefonata, va”. E chiama in Messico, tutti se ne vanno, io resto da solo vado in tipografia, sto via almeno un’ora e quando torno, Gianni era ancora lì. In teleselezione intercontinentale, il cui costo non oso pensare. Quando chiude: “Ah, Bocca, dai che s’è fatto tardi: nd’annamo a cena? Oh, e tu padre, come sta tu padre?” “Sta bene, è in pensione”. La cena all’una di notte non la ricordo: credo fu al bar del primo piano di Piazza Indipendenza.
Gianni era simpatico, socievole, non se la tirava. Così come piaceva a noi, piaceva ai grandi campioni e i grandi personaggi che si fidavano e si aprivano con lui. Da lui ho imparato a stare quasi sempre dalla parte dei giocatori e dei campioni e a tenere ben distinto lo sport dalla politica, dal business, e dalla macchina che spreme il talento per pura convenienza. Gianni stava con Maradona quando tutto il mondo era contro Maradona. E lo stesso per Falcao. O per Pantani. O per Mennea.
Uno che mise insieme a cena a Trastevere da Checco Er Carrettiere in una stessa serata Muhammad Alì, Robert De Niro, Sergio Leone e Gabriel Garcia Marquez, raccontava tutto con una semplicità sbalorditiva che fanno quell’incontro ancora più grande ed epico. E ogni volta quel racconto s’arricchiva di un dettaglio che lo faceva sempre più surreale . Sintetizzando: “Stavo a casa con Muhammad Alì e mi chiama Robert De Niro. Gli dico sto andando a cena con Muhammad, e lui, come vai a cena con Alì e non mi dici niente?. No, io vengo con te. Poi mi chiama Sergio Leone e fa: guarda che De Niro stasera non può venire a cena con te, abbiamo un incontro importante per il film. Ma io non c’entro, stavo andando a cena con Muhammad. Alì? Stai andando a cena con Alì? Allora vengo pure io. Poi mentre stiamo per uscire chiama Garcia Marquez e mi dice: veramente dovevo andare a cena con Leone, ma mi ha detto che viene con te, allora a questo punto vengo da te… E va bene, vieni, vieni”.
Ma veramente, se tutti quanti non vedessimo quella straordinaria foto, chi crederebbe mai a un racconto così disinvolto e strampalato? No, davvero: volevamo tutti una vita come Gianni Minà.