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Il Covid continua a colpire pesantemente anche la nostra categoria. Ci ha lasciato Rita Di Giovacchino, giornalista di lungo corso, una vita professionale spesa nella prima linea della storia giudiziaria del paese, dal caso Moro al maxi processo di Palermo, alle uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino prima per l’agenzia Ansa poi per le pagine del Messaggero.

Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Lazio si stringe alla famiglia e al dolore di tutti i colleghi che l’anno conosciuta e hanno condiviso con lei il lavoro della cronaca del terrorismo, delle storie di mafia e delle grandi inchieste. Era figlia degli anni Settante e le piaceva rivendicarlo perché i giovani riteneva non capissero e non potessero capire la storia di quegli anni. Rivendicava, con orgoglio, quella stagione che le apparteneva: il tempo della ribellione e quegli anni, sui quali aveva sempre un aneddoto da raccontare a fondo politico o solo di colore. Aveva cominciato a fare la giornalista giovanissima. Amava raccontare dettagli inediti, teoremi, spiegazioni. La cronaca giudiziaria era la sua vita. “A Palermo mi hanno lasciata per sei mesi” diceva. “È arrivato l’inverno e mi hanno dovuto mandare i vestiti”. E poi ancora, inviata per il processo Andreotti. Alla fine, di Palermo si era innamorata, così aveva deciso di comprare una casa.

Era stata anche a Cogne, per seguire il caso di Annamaria Franzoni, ma la sua passione rimanevano le inchieste su mafia e politica, l’intreccio tra criminalità e servizi segreti. Nel 1994 aveva scritto un libro su Mino Pecorelli (“Scoop mortale”, Tullio Pironti) che descriveva l’intreccio criminale-politico di cui rimase vittima il direttore di “OP”. Con “Il libro nero della Prima Repubblica” aveva ricostruito – come scrisse lei stessa – l’intreccio dei poteri, visibili e invisibili, che hanno caratterizzato e condizionato decenni di vita politica nazionale.

Rita lascia il figlio Emiliano, il compagno Stefano e due nipotine. A loro, in particolare, va la nostra vicinanza.

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