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di Carlo Picozza

È stato un maestro di giornalismo e di vita. Eugenio Scalfari, il più grande giornalista, per quanti lo hanno conosciuto, è stato anche un padre, anzi, un fratello maggiore. Avveduto e attrezzatissimo nell’intelletto, era sempre pronto a condividere, non solo con donne e uomini della sua generazione ma pure con quelli molto più giovani, scelte e avventure esaltanti. Coincidenza, fatalità o altro ha voluto che ci lasciasse proprio il giorno che amava festeggiare, il 14 luglio, anniversario della Presa della Bastiglia. Più che una data, era per lui un impegno civile, una speranza.

Non ci sono parole, oltre quelle – tantissime e sempre studiate e sudate, in decenni di impegno giornalistico e scavi intellettuali di altissimo livello – lasciate da lui per poter delineare bene la qualità e la statura della sua umanità, della sua professionalità. E della visione con la quale ha saputo orientare il suo giornale, la Repubblica – che già nel formato si presentava più agile di altri – non solo verso un pubblico più inquieto, quello pervaso o solo lambito dai sommovimenti del Sessantotto, ma, via via, verso una platea più vasta, tenuta insieme dalla domanda di conoscenza dei moventi politici, di quelli della cronaca e della stessa esistenza umana.

Il coraggio che ha animato le scelte e le imprese di Scalfari ha trovato un propellente potente nella sua curiosità intellettuale e nel desiderio di esplorazione degli affanni e degli entusiasmi umani. Del fratello maggiore Scalfari aveva la capacità del coinvolgimento emotivo e del convincimento intellettuale. Il suo ragionare sul senso della vita interpretava un sentire comune che lui ha saputo tradurre anche in un comune aspirare. È stato per anni, fino alla fine, un riferimento che ha irradiato voglia di balzi in avanti. E tanta energia. Che gli sopravviverà.

Ciao direttore, che la terra ti sia lieve.

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