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I giornalisti, da oggi, sono un po’ più liberi di raccontare gli “scheletri nell’armadio” di chi riceve un incarico politico, anche quando si tratta di magistrati “in carriera” incappati, in passato, in procedimenti penali e disciplinari dai quali sono usciti indenni. Il “nulla osta” viene dalla Cassazione.

E’ stato infatti accolto dalla suprema corte il ricorso con il quale l’ex direttore de L’Unità Fulvio Colombo e la giornalista Sandra Amurri hanno contestato la condanna – inflitta loro dalla Corte di Appello di Roma nel 2010 – a pagare 40 mila euro per risarcimento danni da diffamazione in favore dell’ex magistrato Arcibaldo Miller, chiamato al ministero di via Arenula nel 2002 come “capo” degli ispettori dal guardasigilli Roberto Castelli.

Nell’articolo incriminato firmato dalla Amurri nel maggio 2002, e ora scagionato, si criticava l’opportunità di tale nomina in quanto Miller in precedenza era stato sottoposto a vari procedimenti penali e disciplinari conclusisi senza condanne. Secondo la Corte di Appello, riferire queste vicende di Miller, “non aveva giustificazione alcuna se non evidenziare in senso deteriore la personalità del soggetto” ed insinuare nei lettori il dubbio che fosse stato nominato ispettore per “vendicarsi” dei colleghi che lo avevano inquisito. Inoltre la cronista, per la Corte di Appello, aveva sbagliato a dilungarsi su questi fatti antichi e avrebbe dovuto limitarsi a “richiamarli genericamente”. Questo ragionamento è stato bocciato dalla Cassazione che – con la sentenza 493, presidente Giovanni Petti, relatore Marco Rossetti – giudica questa motivazione “gravemente viziata sul piano della esaustività, su quello della logica e su quello della coerenza”.

Annullando con rinvio la condanna risarcitoria, la suprema corte ha disposto che nell’appello bis si tenga conto del seguente principio di diritto: “Non lede l’onore altrui il giornalista che, per esprimere un giudizio negativo sul conferimento di un incarico politico, riferisca di procedimenti penali e disciplinari cui in passato venne sottoposta la persona incaricata, se i fatti riportati siano veri, il tono non sia offensivo e si dia correttamente conto dell’esito assolutorio di quei procedimenti”. Nel caso in questione, osservano gli ermellini, la Corte di Appello “ha da un lato ammesso la liceità della critica, e dall’altro ha ritenuto ‘denigratoria’ l’esposizione troppo dettagliata delle ragioni con le quali la giornalista aveva inteso sorreggere il proprio giudizio”. “Il che vuol dire – prosegue il verdetto – negare nella sostanza quanto si afferma in teoria: se infatti la critica politica per esser lecita ha da esser motivata, censurare un giornalista per avere motivato la propria critica significa di fatto negare il fondamento della critica stessa”. Per i supremi giudici, “così ragionando, non si uscirebbe dall’alternativa: se una critica non è motivata essa è gratuita e perciò denigratoria; se una critica è troppo motivata essa sarebbe ugualmente denigratoria”. “Tale ‘reductio ad absurdum’ rende evidente il vizio logico da cui ha preso le mosse la sentenza impugnata, e cioè ritenere denigratorio impiegare troppi particolari per spiegare le ragioni della propria critica politica”, conclude la Cassazione.

Fonte: Ansa

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